Testo introduttivo alla mostra ”L’universo di Pier Paolo Pasolini”, visibile fino a novembre al Castello Carlo V di Lecce.
Volti sdentati, tratti spigolosi, devastanti piorree.
Nell’Italia dei primi anni ’60 – quella del boom economico e di Carosello,
del dentifricio obbligatorio e del deodorante per tutti –
Pier Paolo Pasolini porta sul grande schermo del cinema
una fisiognomica differente.
Da dove vengono i volti di Accattone, di Mamma Roma, di La ricotta?
Dal sottoproletariato avido di vita
che popola le infinite periferie dell’Urbe?
Anche, certo. Sono i volti dei “ragazzi di vita”.
Ma prima ancora quei volti austeri, sorridenti e irregolari vengono dal passato.
Vengono dalle Chiese, dagli affreschi, dai ruderi, dalle pale d’altare
della grande tradizione pittorica italiana.
Vengono da Giotto e da Masaccio,
e fanno irrompere nella forzata omologazione della modernità
il fantasma mai definitivamente rimosso
della differenza e dall’identità.
Fra tutti i Maestri del cinema italiano
Pasolini è senz’altro il più “pittorico”.
Il più capace di generare cortocircuiti visivi ed emozionali
fra l’inevitabile immobilità della pittura
e la congenita mobilità del cinema.
Fra stasi e movimento.
Fra passato e presente.
Fra bianco&nero e colore.
Fra allora e ora.
Fra là e qui.
Il videomontaggio presentato in questa mostra
gioca su questo cortocircuito.
E scivola fra dissolvenze e stacchi netti
in un universo visivo
(ma anche concettuale, filosofico, estetico, politico e sociale)
che fa del cinema il terminale estremo
di un percorso che viene da lontano,
e che solo riscoprendo quelle radici antiche
riesce a dirci qualcosa di quel che siamo
e di quello che stiamo diventando,
O, forse, anche di quello che siamo già diventati.
. Buon post, se ne incontrano pochi in rete di questo tipo.
Purtroppo