Perché un pannolino vale più di un film?

Perché un pannolino vale più di un film?

C’è una domanda a cui, per quanto mi sforzi, non riesco a dare una risposta.

Perché se uno vuole acquistare sul web qualsiasi prodotto materiale – dai formaggini ai pannolini – trova normale che questi abbiamo un prezzo e che per poterne disporre bisogna sostenere un costo, mentre di fronte a prodotti cosiddetti immateriali – un film, un brano musicale, un articolo, un testo – molti pretendono che siano disponibili gratuitamente? Forse che il lavoro di un produttore di pannolini vale di più di quello di chi realizza un film o di chi scrive una canzone?

Misteri della Rete.

Fatto sta che sia a livello europeo che a livello italiano un fronte ampio che va dai post-comunisti ai neo-sovranisti urla compatto contro la legge che tutela il diritto d’autore, in difesa di quella che loro chiamano la libertà della Rete. Che è poi la liberta di alcuni colossi del web di rubacchiare contenuti prodotti da altri e di metterli a disposizione drenando pubblicità da capogiro e pagando tasse in misura ridicola. Ma sanno i paladini della libertà che i loro amati Google e Facebook hanno fatturato in Italia nell’ultimo anno 2 miliardi di euro, accaparrandosi il 90% delle risorse pubblicitarie, dando lavoro a un numero ridicolo di persone (poche decine) e pagando meno tasse di una piccola impresa mobiliera della Brianza?

Ci sono voluti secoli per arrivare a tutelare il diritto d’autore. Per vedere riconosciuto il valore del lavoro intellettuale e creativo. Per far sì che le professioni creative non fossero più solo appannaggio di rentier con alle spalle famiglie aristocratiche. Ci sono voluti secoli per capire che il riconoscimento economico del diritto d’autore, nel momento in cui questo diventa di massa, è una delle poche vie di cui il singolo individuo dispone per sfuggire davvero alla schiavitù del lavoro salariato. Ora tutto ciò rischia di essere cancellato da coloro che con la scusa della libertà della Rete in realtà diventano le guardie del corpo dell’algoritmocrazia. E allora bisogna dirlo forte e chiaro che nella battaglia europea per la difesa del diritto d’autore passa non solo l’affermazione di un principio, ma anche il futuro dell’industria culturale e dei nostri attrezzi per fantasticare.

Se si perde quella battaglia, il rischio è che di qui a poco non ci siano più film, musiche e testi che non siano quelli voluti e approvati dai detentori delle infrastrutture tecnologiche di circuitazione di contenuti rubati. C’è il rischio che il regista o il musicista o lo sceneggiatore non siano più professioni retribuite ma attività dopolavoristiche e dilettantesche. Oppure attività da cortigiani disposti a produrre ciò che i nuovi Padroni vogliono si produca. E’ questo che volete? Questo che vogliamo? Questo il futuro che ci attende? La battaglia di settembre sul copyright è una battaglia decisiva. Non solo per noi, ma anche per quelli che verranno dopo di noi.

 

Gianni Canova

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Ermanno Olmi (1931-2018) L’infinita ma indispensabile precarietà del cinema

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Un affettuoso ricordo del maestro bergamasco, scomparso il 7 maggio a 86 anni, vincitore della Palma d’oro a Cannes con L’albero degli zoccoli (1978) e del Leone d’oro a Venezia con La leggenda del santo bevitore (1988).

L’ultima volta che l’ho visto è stato nel Duomo di Milano per la prima mondiale del suo ultimo film, il toccante documentario sul Cardinal Martini, vedete, sono uno di voi. Alla fine della proiezione mi sono avvicinato, assieme a tanti altri, per salutarlo. Lui mi ha sorriso e mi ha abbracciato, con quel modo unico che aveva di abbracciare. “Come va, Ermanno?”, gli ho chiesto, con una di quelle banali frasi di circostanza che ti penti di aver pronunciato mentre ancora ti stanno uscendo di bocca. E lui, con un sorriso fatto di rassegnata sopportazione ma anche di lucida autoironia, mi ha risposto: “Dal collo in su va benissimo. Dal collo in giù non funziona più nulla…”. Non l’avrei più rivisto. Ma ricordo ancora quell’abbraccio. Quel calore. Quella ritrosia intrisa di tenerezza e di umanità. Bergamasco come lui, mi sono sempre sentito legato a Olmi da una sorta di sotterranea complicità. Anche lui la sentiva. “Tu sei uno dei pochi critici – mi ha detto una volta nella sua casa di Asiago – che può capire L’albero degli zoccoli senza bisogno di sottotitoli…”.  Non so se sia proprio così. So però che conosco quella gente e quella cultura meglio di tanti altri. E proprio per questo sento con più violenza il vuoto che la morte di Ermanno ci ha lasciato. “Tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico”, dice una battuta memorabile di uno dei suoi film più belli, Centochiodi. Ermanno lo pensava davvero. Sapeva e sentiva che l’amicizia è uno dei valori irrinunciabili della vita. E lui sapeva essere un amico gentile, premuroso, affettuoso. In un mondo devastato dal rancore, dagli odiatori di professione, dai killer del web, Olmi ha incarnato un’idea di umanità solida e antica, fatta di promesse e di radici, di lealtà e di gentilezza. Non era un teologo. Olmi. Neppure un predicatore, un missionario, un esegeta. Era un artista, un narratore. Un poeta che si esprimeva con la macchina da presa. Come ogni artista, non poteva comunicare che per parabole: cioè per storie che trasformano le parole in atti, e le incarnano in volti, corpi, sguardi, gesti, azioni. Ecco allora i volti straordinari dei suoi vecchi contadini di pianura e di fiume, che parlano nel loro antico e solenne dialetto padano, e che in Centochiodi ballano dolcemente nella balera improvvisata sul fiume, e osservano da lontano il battello che passa ogni sera, con a bordo altre coppie che ballano sulle note struggenti di Non ti scordar di me, riarrangiate da Paolo Fresu. È un cinema che sa di pane e di vino, e di zolle, e di terra umida e di acqua di fiume, quello di Ermanno. Ma senza nessuna nostalgia per la civiltà contadina che sembra sul punto di sparire: Olmi non era nostalgico ne L’albero degli zoccoli, e non lo è mai nei suoi film successivi. Caso mai è lirico ed elegiaco. A tratti parabolico. Spesso scandaloso. Come quando fa dire a un suo personaggio che “le religioni non hanno mai salvato il mondo”, e che il giorno del Giudizio sarà Dio che “dovrà rendere conto delle sofferenze che ha provocato agli uomini”. Per Olmi conta la Fede, non la religione. Le religioni possono essere – e a volte nella Storia sono state – strumenti di potere: quanti eserciti hanno impugnato le armi – ricorda Olmi – dicendo di farlo in nome e per conto di Dio?

I suoi film si dibattono sempre fra due tentazioni contrapposte ma  complementari: da un lato il suo è un cinema che si dà come epifania di un inizio, come annuncio di un esordio (la nascita di Gesù in Cammina Cammina; la vocazione e la formazione di un pontefice in E venne un uomo; la Bildung di un impiegato ne Il posto e quella di un adolescente in Lunga vita alla signora); dall’altro, con analogo nitore, è cinema che si costruisce sulla fenomenologia di ciò che si estingue, sulla messinscena di ciò che sta per scomparire (la fine di un barbone in La leggenda del santo bevitore; la fine della civiltà contadina lombarda in L’albero degli zoccoli; la fine di un amore ne I fidanzati). Talora, le due tentazioni dello sguardo di Olmi si sovrappongono come in una dissolvenza incrociata e producono film in cui l’estinzione di qualcosa si accompagna (e confligge, e fa attrito) con la formazione di qualcos’altro (come accade, ad esempio, nella dialettica che contrappone i protagonisti di Il tempo si è fermato, I recuperanti o La circostanza). C’è sempre un attimo in cui il tempo si ferma, nel cinema di Olmi. Ed è proprio a partire da quel frammento di tempo congelato che Olmi lavora – attraverso processi di destrutturazione e ricomposizione non lineare del passato e del futuro – alla produzione di quel senso della precarietà – centrale in un capolavoro come Il mestiere delle armi – che è uno dei tratti connotativi più specifici e preziosi di tutto il suo cinema.

Assieme alla consapevolezza sempre ribadita che i film sono come i libri in Centochiodi: o si fanno carne (e vita e sangue e corpo e respiro) o non servono a nulla. I suoi film si sono sempre “incarnati” per noi.

Sokurov: il potere è una malattia infettiva

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Il 28 settembre 2016 Aleksander Sokurov mette in scena Marmi di Brodskij al teatro Olimpico di Vicenza. Ma non è solo un testo messo in scena : è una performance che mescola Palladio, la vita di Brodskij e Fellini per raccontare ancora una volta il Tempo e il Potere. Sabato, durante una lunga conversazione pubblica a Vicenza, gli ho chiesto di aggiornare la sua riflessione sul potere. e lui ha regalato a tutti i presentii una lunga appassionata coinvolgernte e illuminante analisi sul potere come malattia. Da brivido. Per inciso: Marmi racconta di una società in cui il 6,7% della popolazione viene messa in galera a vita. senza reati, senza motivi. a priori. Solo una distopia?

Quo Chi? Di cosa ridiamo quando ridiamo di Checco zalone.

dal 3 marzo in libreria un mio nuovo libretto. e’ su checco  zalone, ma anche sui modelli di comicità che hanno dominato in Italia negli ultimi 20 anni.

checco come antidoto comico alla barzelletta e all’invettiva satirica? Cioè alle due forme del comico che si sono trasformate in Italia in forme di potere? checco come compiuta e matura democrazia del comico?

leggete e poi, se volete, criticate. discutiamo.

cliccate qui sotto per vedere la copertina…

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Il chicchirichi stonato di Galli della Loggia contro Leopardi e Mario Martone!

C’è da restare a bocca aperta di fronte alla tronfia sicumera nutrita di ignoranza e presunzione con cui certi elzeviristi di grido pontificano e sproloquiano su tutto, anche su ciò di cui non sanno nulla. 
Il recente caso di Ernesgto Galli Della Loggia che sul Corriere della sera attacca Mario Martone per il suo film su Leopardi e – tra le righe – attacca pure Leopardi, la dice lunga e svela una volta per tutte dove si annidano il conservatorismo, il bigottismo  e il fondamentalismo del giornalismo italiano. Gli elzeviristi alla Galli della Loggia disprezzano – lo riconoscono apertamente – gli artisti, gli intellettuali, i poeti. li ritengono noiosi. Non hanno mai studiato Leopardi (per questo si sentono autorizzati a scriverne e a parlarne: non ne sanno nulla). L’avessero letto saprebbero che per Leopardi la noia è una condizione privilegiata per accedere alla conoscenza. Ma forse il concetto è troppo complesso per il chicchirichi di un elzevirista.
 
 

Per una critica della ragion tecnologica

 Triennale di Milano, 23-24 gennaio 2015

Il mondo che verrà, il mondo come è già

a cura di Matteo Bittanti e Gianni Canova

PROGRAMMA

 

LEGENDA

 

SCREENING: proiezioni di documentari in anteprima per l’Italia

 

PING PONG:  rapidi confronti a due su un romanzo o un saggio a tema, moderati ogni volta da uno dei curatori

 

TALK: Relazioni di intellettuali italiani e stranieri, presenti in sala o in collegamento Skype con la sala del convegno

 

 

 

VENERDI’ 23 GENNAIO

 

Ore 15 – 16.30

SCREENING

Davide Ferrario,

La zuppa del demonio, 2014

 Davide Ferrario

Introduce Gianni Canova

Ore 16.30 – 17.15

PING PONG

Insieme ma soli di Sherry Turkle

Alberto Abruzzese vs.

Andrea Miconi

Introduce Gianni Canova

Ore 17.15 – 18.00

PING PONG   

Storia d’amore vera e supertriste di Gary Shteyngart

 

Marco Belpoliti

vs.

Luca Mastrantonio

Introduce Gianni Canova

Ore 18.00 – 19.00

PING PONG

Il Cerchio di Dave Eggers

Antonio Scurati vs. Giorgio Falco

Introduce Gianni Canova

Ore 19

TALK

Fred Turner, The Democratic Surround  

video + collegamento Skype dagli Usa

Introduce e modera Matteo Bittanti

Ore 20

PAUSA (cena)

Ore 21 – 00.00

SCREENING

Adam Curtis, All Watched over by Machines of Loving Grace, 2011, 180 minuti

 

Introduce Matteo Bittanti

SABATO 24 GENNAIO

Ore 11.00

TALK

Alessandro Ludovico, Il ruolo delle reti nei processi post-print

 

presente in sala

Introduce Matteo Bittanti

Ore 12.00

TALK

Jeffrey Schnapp, Il design dal sapere

presente in sala

Introduce Matteo Bittanti

Ore 13.00

PAUSA (pranzo)

Ore 15.00 – 16.00

SCREENING

Jacques Ellul, Il tradimento della tecnologia, 1992, 50 minuti

 

Introduce Gianni Canova

Ore 16.00 – 16.45

PING PONG

Cosa vuole la tecnologia di Kevin Kelly

Luca Tremolada vs. DA CONFERMARE

Introduce Gianni Canova

ore 17.00

TALK:

Brett Robinson. L’iconografia di Apple: Marketing la metafisica dei media

video + collegamento Skype dagli Usa

Introduce Matteo Bittanti

18.00

SCREENING

Mike Judge, Silicon Valley, 2014, episodi 1 e 2, 60 minuti (in totale)

   

19:00

TALK LUDOLOGICA PRESENTA: Paolo Pedercini, I videogiochi e lo spirito del capitalismo

video + collegamento Skype dagli Usa

Introduce Matteo Bittanti

20.00 – 21.00

PAUSA (cena)

20:00 – 23:00

SCREENING

Ben Lewis, The Google Brain, 2013, 90 minuti

Beeban Kedron, InRealLife, 2013, 90 minuti

   

“Io sono una forza del passato”

pasoliniTesto introduttivo alla mostra  ”L’universo di Pier Paolo Pasolini”, visibile fino a novembre al Castello Carlo V di Lecce. 

 

Volti sdentati, tratti spigolosi, devastanti piorree.

Nell’Italia dei primi anni ’60 – quella del boom economico e di Carosello,

del dentifricio obbligatorio e del deodorante per tutti –

Pier Paolo Pasolini porta sul grande schermo del cinema

una fisiognomica differente.

Da dove vengono i volti di Accattone, di Mamma Roma, di La ricotta?

Dal sottoproletariato avido di vita

che popola le infinite periferie dell’Urbe?

Anche, certo. Sono i volti dei “ragazzi di vita”.

Ma prima ancora quei volti austeri, sorridenti e irregolari vengono dal passato.

Vengono dalle Chiese, dagli affreschi, dai ruderi, dalle pale d’altare

della grande tradizione pittorica italiana.

Vengono da Giotto e da Masaccio,

e fanno irrompere nella forzata omologazione della modernità

il fantasma mai definitivamente rimosso

della differenza e dall’identità.

Fra tutti i Maestri del cinema italiano

Pasolini è senz’altro il più “pittorico”.

Il più capace di generare cortocircuiti visivi ed emozionali

fra l’inevitabile immobilità della pittura

e la congenita mobilità del cinema.

Fra stasi e movimento.

Fra passato e presente.

Fra bianco&nero e colore.

Fra allora e ora.

Fra là e qui.

Il videomontaggio presentato in questa mostra

gioca su questo cortocircuito.

E scivola fra dissolvenze e stacchi netti

in un universo visivo

(ma anche concettuale, filosofico, estetico, politico e sociale)

che fa del cinema il terminale estremo

di un percorso che viene da lontano,

e che solo riscoprendo quelle radici antiche

riesce a dirci qualcosa di quel che siamo

e di quello che stiamo diventando,

O, forse, anche di quello che siamo già diventati.

Tra Godard e il fondoschiena

Testo pubblicato sul Catalogo della Mostra dedicata a Tinto Brass dalla Milanesiana (Milano, 28 giugno-10 luglio 201)

 

In un piccolo paese del Veneto un giorno all’improvviso atterra un disco volante. Ma la sua apparizione è tanto sorprendente e perturbante che la maggior parte della popolazione fa finta di non vederlo, e quei pochi che sostengono di averlo visto vengono rinchiusi in manicomio. La paradossale vicenda messa in scena in Il disco volante (1964) si offre come involontaria ma efficace metafora di come la critica (ma, più in generale, tutto l’establishment del cinema italiano) ha sempre trattato il cinema di Tinto Brass: facendo finta che non ci fosse. O sanzionando come “dementi” quei pochi che osavano apprezzarlo, magari arrivando anche a lodare pubblicamente la qualità e l’originalità dei suoi film.Troppo “diverso”, il cinema di Brass, per piacere ai custodi del canone e ai gendarmi del gusto. Eppure, per nostra fortuna, quel cinema sta lì: quasi come uno sberleffo o uno scaracchio rivolto a un cinema e a una cultura che da più di 70 anni sono soffocati dalla dittatura del verosimile, dal culto cieco del naturalismo, e soprattutto dall’idea che il cinema debba rispecchiare la vita, cercando di riprodurre con la massima fedeltà possibile la tristezza dei nostri tinelli, delle nostre camere con vista e dei nostri cucinini con mobili in formica. Brass non rispecchia, crea. Per questo è così indigesto. Così malvisto. Così osteggiato, snobbato, dileggiato. Eppure, chi avesse la pazienza di rivedere oggi, senza pregiudizi e senza paraocchi, anche solo i film realizzati da Brass negli anni Sessanta, scoprirebbe alcune verità incontrovertibili: si renderebbe conto, ad esempio, che nessun altro cineasta italiano ha raccolto e sviluppato la lezione della nouvelle vague francese come ha fatto Brass. Altro che Bertolucci: Prima della rivoluzione e Partner saranno anche impregnati di umori parigini, e di procedimenti di messinscena di derivazione godardiana, ma mancano di alcuni aspetti costitutivi del cinema nouvelle vague, a cominciare dal registro ludico/giocoso e – soprattutto – dall’amore per i generi e dal gusto di giocare con i loro topoi e i loro stilemi. Brass invece lo fa. Si prenda un film come Col cuore in gola (1967): fin dal titolo, è quanto di più vicino – nel cinema italiano – a A’ bout de souffle diJean-Luc Godard. Se Godard si era ispirato alla cultura del polar francese, Brass prende le mosse dal giallo Il sepolcro di carta di Sergio Donati e lo mette in scena con la consulenza grafica (e sulla base di uno storyboard) di Guido Crepax. Il risultato è stupefacente: Brass gioca con la cultura pop (cioè con il fumetto, la pubblicità, la grafica, il design, la psichedelia, la cultura underground, la segnaletica urbana…) come nessun altro cineasta italiano ha mai fatto, in un procedimento di messinscena che sperimenta spericolate ibridazioni fra alto e basso molto prima che lo facesse il cosiddetto postmodern. I riferimenti “alti” si sprecano (comprese alcune citazioni testuali di Jules e Jim, di Killer’s Kiss, dello stesso A’ bout de souffle, oltre a un manifesto di Blow-up di Antonioni all’ingresso di un cinema, insistentemente inquadrato), ma mescolati con poster di Batman e gigantografie di Clark Gable o del “godardiano” Humphrey Bogart. Le immagini alternano colori pop acidi e squillanti (a cominciare dallo spolverino rosso brillante di Eva Aulin) a un bianco e nero molto optical, alcune onomatopee fumettistiche (swing in rosso, slam in nero…) vengono usate per visualizzare il dolore provocato da pugni o cazzotti, il montaggio frenetico assembla tutti i procedimenti (zoom, dettagli, mascherini, e così via…) che esibiscono il funzionamento del dispositivo cinematografico. Ma poi Brass utilizza l’esile trama “gialla” che ha per protagonisti Jean Louis Trintignant e Eva Aulin per portare a fondo la sua riflessione sulle forme della rappresentazione: nell’unica occasione in cui i due vanno al cinema vedono sullo schermo non un film di finzione ma immagini in bianco e nero di cinegiornali che riferiscono dei conflitti in atto sullo scacchiere mondiale, da Israele al Vietnam, Poi, quando escono dal cinema, i due si trovano ad attraversare (a colori) la stessa manifestazione di protesta a Trafalgar Square che proco prima avevano visto – in bianco e nero – sullo schermo del cinema. Quasi a suggerire che nella società dello spettacolo scena della finzione e scena della realtà si sovrappongono senza soluzione di continuità, così come si mescolano presente e passato, ciò che è già accaduto e ciò che sta ancora accadendo. Da Chi lavora è perduto (1963) a Yankee (1966), da Nerosubianco (1968) a L’urlo (1968), tutti i film di Brass degli anni Sessanta presentano caratteristiche analoghe e colpiscono ancora – a mezzo secolo di distanza – per l’eleganza visiva, la modernità compositiva, la libertà concettuale. Anarchico e visionario come nessun altro cineasta della sua generazione, Brass se ne sta lontano dalle lobbies e dai clan, dalle famiglie e dalle tribù, disdegna il cinema politicamente corretto, non teme di essere scorretto scomodo acido eretico. Soprattutto, commette quello che per i chierici del cinema italiano è il peccato mortale: applica il sublime dello stile non a temi socialmente, politicamente culturalmente rilevanti, ma a un tema “basso” come le voglie del corpo. Quando poi, dagli anni ‘70 in qua, il suo sguardo si sposterà ancora più in basso, gli altri lo condanneranno al manicomio dell’oblio. Colpevole –questa volta – di aver portatop il sublime laddove nessun moralista potrà mai accettare di riconoscerlo: all’altezza esatta del buso del culo

Perché facebook ha paura di Pirandello?

Nelle nostre scuole non lo si studia, neanche al Liceo Classico. Eppure, Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1916) di Luigi Pirandello è uno dei primi romanzi europei ambientati nel mondo pionieristico del cinema muto. Intuisce con incredibile lungimiranza la nascita della società dello spettacolo. Ed è ampiamente citato da Walter Benjamin – in quel saggio capitale che è L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica – come testo imprescindibile per capire lo spaesamento dell’attore (Benjamin parla di esilio) nel passaggio dal palcoscenico teatrale al set cinematografico. Quest’anno ho deciso di dedicare parte del mio corso universitario sugli immaginari dell’era digitale proprio a Serafino Gubbio. Nel romanzo, Serafino soffre la tipica scissione pirandelliana tra forma e vita: intelligente e sensibile, ma percepito dagli altri unicamente come un operatore “meccanico”, decide risolvere il dissidio fra la sua interiorità (e sensibilità…) e il modo in cui lo vedono gli altri accettando di essere solo “una mano che gira la manovella” della macchina da presa. Per compensare questa sorta di autoalienazione Serafino però scrive un diario (i Quaderni, appunto) in cui esprime se stesso e racconta il mondo dal suo particolarissimo punto di vista.
Nel mio corso ho creato un blog in cui immagino che Serafino Gubbio sia il nickname di un trentenne dei giorni nostri, laureato Dams, cinefilo raffinato, che per campare fa l’operatore in una Tv privata lombarda occupandosi prevalentemente dei servizi di nera. Di fatto, è un operatore specializzato nel realizzare le immagini mediatiche dei più efferati delitti. Visto che all’università sognava di essere il Fassbinder italiano, il mondo della Tv non piace più di tanto, e anche il suo lavoro gli fa abbastanza schifo. Lo fa per motivi alimentari. E come il personaggio di Pirandello scriveva i suoi Quaderni, il mio Serafino si sfoga nel blog (www.serafinogubbio.it) in cui riferisce dei delitti di cui è testimone, ma discute anche di immagini, di cinema e di media. Gli studenti del corso erano e sono chiamati a costruirsi tutti un’identità fittizia assumendo come pseudonimo il nome di un personaggio pirandelliano. Con questa finta identità – a me ignota, almeno fino al momento dell’esame – avrebbero dovuto aprire un profilo su Facebook e intervenire sul blog creando un personaggio coerente con la sua matrice pirandelliana e capace di inserirsi nella narrazione ipertestuale che avremmo cercato collettivamente di creare.
Il blog è partito, ma subito qualcosa si è inceppato. Facebook ha bloccato gli account pirandelliani. Ha cancellato Varia Nestoroff e Adriano Meis, Ciaula il caruso e Ducella Mirelli. Anche la pagina Facebook del mio Serafino Gubbio è stata oscurata. Ogni volta che provavo a riattivarla, arrivavano messaggi molto secchi che ricordavano la policy del social network: niente identità fittizie. Le nostre venivano percepite come tali e oscurate. Una, due, tre, quattro volte. Fino alla disabilitazione definitiva. Algoritmi implacabili e cecchini micidiali. Ora: la policy di Facebook è nota e non si discute. E però – lo sanno tutti – Facebook ribolle di persone che si sono autoattribuite un’identità diversa da quella reale. Che non sono su Facebook con il loro vero nome. Che alterano la propria identità a proprio piacere. Il successo di Facebook – si sa – deriva in gran parte anche da questo: ti concede di essere non quello che sei ma quello che vorresti essere. Di pubblicare qualsiasi immagine per rappresentarti al meglio. Di fare della tua identità un progetto invece che uno status, o un lascito ereditario. Su Facebook ci sono tanti altri Serafino Gubbio, e altri utenti con avatar pirandelliani. Perché proprio i nostri sono stati oscurati? Forse che Facebook consente il falso all’utente singolo ma non a una comunità?
Quale che sia la risposta, trovo curioso che il social network che ha consentito a tutti di sanare il dissidio fra essere e apparire oscuri con i suoi algoritmi proprio un gioco di ruolo narrativo ispirato dallo (e allo) scrittore – premio Nobel – che meglio di chiunque altro ha narrato e descritto l’inevitabile condanna ad essere sempre e solo quello che gli altri vedono in noi.

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Grace Kelly era così?

grace-kelly-Grimaldi“La mamma non era così!”, tuonano indignati Alberto, Stephanie e Caroline di Monaco, sconfessando il film con Nicole Kidman che evoca la figura di Grace Kelly e che è stato selezionato per aprire il festival di Cannes. “Alma Reville era diversa da come la si vede nel film!”, ringhia qualcun altro dopo aver visto il film che Sacha Gervasi ha dedicato a Hitchcock e al rapporto che il mago del brivido aveva con la moglie nel periodo della lavorazione di Psycho. Ormai è quasi scontato: ogni volta che un film tocca qualcosa che ha a che fare con la vita, o mette in scena qualche personaggio realmente esistito, ecco che qualcuno alza la mano per dire che la vita (o quel dato personaggio) non sono come li mostra il film. In fondo, la bellezza del cinema sta anche qui: assomiglia alla vita, ma non è la vita, per fortuna. Eppure. Eppure, c’è chi vorrebbe che il cinema si sottomettesse docilmente alla dittatura del verosimile. A quello che egli ritiene sia il verosimile. O il “vero”. Mi è capitato di discutere animatamente con spettatori che di fronte al film di Paolo Franchi E la chiamano estate, si indignavano (e stroncavano…) dicendo irritati: “Ma non è così che funziona il sesso!”. Beati loro che hanno capito con tanta certezza come funziona… Ma ho discusso anche con una spettatrice che di fronte a La migliore offerta di Tornatore brontolava: “Non è verosimile che una ragazza giovane e bella come quella del film si invaghisca di un vecchio come il personaggio di Geoffrey Rush!!!”. A parte il fatto che la fanciulla in questione non si invaghisce, ma simula di invaghirsi, anche in questo caso c’è il rifiuto di un cinema che non si conforma a quella che si presume sia la realtà. Ho scritto “si presume” non a caso: io invidio che ha la certezza di aver capito una volta per tutte che cos’è la realtà. Chi ha la presunzione di credere che il proprio punto di vista sul mondo (e sul sesso, su Grace Kelly, sulla moglie di Hitchcock, su quello che volete voi…) sia l’unico punto di vista possibile. L’unico reale. Il cinema – secondo me – non è mai la realtà. Non è lo specchio del mondo. Non lo riflette. Eppure noi pretendiamo da lui che assomigli a ciò che noi pensiamo sia il mondo. Pretesa impossibile. Le immagini non sono mai la realtà. Vi siete mai chiesti perché quando mostrate la vostra carta d’identità a qualcuno, nove volte su dieci vi sentite in dovere di aggiungere: “Non guardare la foto, sono venuto male!”? Non è che sei venuto male. È che non ci riconosciamo mai del tutto nelle immagini che ci rappresentano. Mai quanto vorremmo. Le immagini ci attizzano e poi ci frustrano, ci promettono e poi ci deludono. Come dire: non ci bastano mai. Non ne abbiamo mai abbastanza. Forse è per questo che continuiamo ad andare al cinema. Perché sappiamo che Grace Kelly non era così, ma che in fondo era anche così.

La domanda che non mi ero mai fatto

Qualche giorno fa sono andato con mia figlia di nove anni a vedere “Storia di una ladra di libri”. Volevo ragionare un po’ con lei sulla storia del Novecento e mi sembrava che il film  potesse fornire più di uno spunto interessante. Avevo l’atteggiamento di chi vuole insegnare. E invece ho imparato. Perchè all’uscita del film Cate mi ha fatto una domanda spiazzante. LA DOMANDA. Quella che io non mi ero mai posto. Quella che fa scricchiolare tutta la prosopopea di noi adulti convinti di essere colti solo perchè abbiamo comprato qualche certezza a buon mercato… “Papà, ma come li riconoscevano gli ebrei?”. Già: come li riconoscevano? ho visto decine se non centinaia di film in cui gli ebrei venivano riconosciuti e portati via, ma non mi ero mai posto la prima domanda che iStoria-di-una-ladra-di-libri-pellicola-sulla-passione-per-i-librinvece è venuta in mente a una bambina. mica era scritto sui documenti, che erano ebrei. Certo, se vivevano nel ghetto era probabile che lo fossero. Ma era questo il criterio di individuazione che veniva effettivamente usato? voi cosa avreste risposto? io non ho saputo risposndere, e ho cercato di documentarmi, di capire. mi sono fatto l’idea che una delle pratiche più diffuse di individuazione si basasse, soprattutto in Italia, sulla delazione. si dice che – negli anni in cui una celebre canzonetta diceva: “Se potessi avere mille lire al mese…” – un ebreo denunciato valesse alla “spia” una ricompensa intorno alle 5000 lire. Un’enormità. Anche dietro l’infamia del razzismo c’è sempre l’avidità. E’ l’economia – ancora una volta – che genera mostri e massacri. Ma per ricordarmelo, c’è voluto lo sguardo diretto e senza pregudizi di una bambina.

 

 

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..io nel pensier mi fingo

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Mario martone sta lavorando a un film su Giacomo Leopardi.

Ieri ho visto il nuovo film di Davide Ferrario, ed è un film intimamente “leopardiano”. comincia con una frase di Leopardi (“Ridendo dei nostri mali trovo qualche conforto…”), celebra il fascino e la luce della luna (su Torino, ma non solo…) ed è pieno di pillole leopardiane di grande intensità (“Dietro ogni paesaggio c’è un altro paesaggio che si percepisce con la vaghezza e l’indefinitezza dei fatti immaginativi”). Continua a leggere

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Perché non amo Sacro Gra

Negli ultimi mesi del 2013 sono stato fermato per strada o contattato via email da decine e decine di spettatori che mi hanno apostrofato più o meno così: “Siamo andati a vedere Sacro Gra spinti dal ‘certificato di garanzia’ del Leone d’oro a Venezia. Bella bufala. Non andremo più a vedere un film italiano”. Non pretendo che queste reazioni abbiano un valore statistico probatorio, ma che siano un sintomo mi sembra indubbio: quanto meno, un sintomo di disagio, di diffidenza, di incomunicabilità fra l’establishment del cinema e il pubblico che continua ad andare a vedere i film. Continua a leggere